Giubileo dei diaconi

 

VEDERE ANCHE:   diacono      Il Giubileo in Vaticano     disponibilità

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29/05/2016 11:21

Papa a diaconi: siate a servizio di Dio non della vostra agenda

Messa in Piazza San Pietro per il Giubileo dei diaconi - AFP

Messa in Piazza San Pietro per il Giubileo dei diaconi – AFP

29/05/2016 11:21

Ogni diacono è insieme un apostolo e un servitore: mai “schiavo” dell’agenda dei suoi impegni e sempre capace di “trascurare gli orari” per aprire tempi e spazi ai fratelli, secondo lo stile di Dio improntato alla “mitezza”. È il pensiero che Papa Francesco ha espresso all’omelia della Messa presieduta in Piazza San Pietro nel giorno del Giubileo dei diaconi. Vivendo così, ha detto loro il Papa, il vostro servizio “sarà evangelicamente fecondo”. Il servizio di Alessandro De Carolis:

Uomini a servizio, disponibili e miti, perché Gesù lo è stato per primo. La vocazione, anzi l’ambizione del diacono – afferma Papa – non può essere diversa da questa. Servitore di tutti, del fratello atteso e di quello non previsto, elastico nell’accogliere e fare spazio a chi ha bisogno, non un burocrate del sacro per cui anche la carità, la vita parrocchiale, sono regolate da un orario di servizio.

Vita cristiana, vita di servizio
Sotto le nuvole di una primavera del tutto umorale, che vela a lungo di grigio la folla in Piazza San Pietro, centinaia di stole diagonali sono schierate davanti e di fianco all’altare per il loro Giubileo della misericordia. Francesco ricorda con le parole di un Padre della Chiesa che il primo “diacono di tutti” è stato Cristo e che lo stesso San Paolo, scrivendo ai Galati, si presenta sia come “apostolo” che come “servitore”. “Sono due facce della stessa medaglia”, osserva il Papa, perché “chi annuncia Gesù è chiamato a servire e chi serve annuncia Gesù”:

“Il discepolo di Gesù non può andare su una strada diversa da quella del Maestro, ma se vuole annunciare deve imitarlo, come ha fatto Paolo: ambire a diventare servitore. In altre parole, se evangelizzare è la missione consegnata a ogni cristiano nel Battesimo, servire è lo stile con cui vivere la missione, l’unico modo di essere discepolo di Gesù. È suo testimone chi fa come Lui: chi serve i fratelli e le sorelle, senza stancarsi di Cristo umile, senza stancarsi della vita cristiana che è vita di servizio”.

Aperti alle sorprese di Dio
Per riuscire in questa missione è necessario, indica il Papa, un allenamento quotidiano alla “disponibilità”, a donare la vita. “Chi serve – sottolinea Francesco – non è un custode geloso del proprio tempo, anzi rinuncia ad essere il padrone della propria giornata”:

“Chi serve non è schiavo dell’agenda che stabilisce, ma, docile di cuore, è disponibile al non programmato: pronto per il fratello e aperto all’imprevisto, che non manca mai e spesso è la sorpresa quotidiana di Dio. Il servitore è aperto alla sorpresa, alle sorprese quotidiane di Dio”.

“Trascurare gli orari”
Il servitore, prosegue, sa servire senza badare al “tornaconto”, aprendo “le porte del suo tempo e dei suoi spazi a chi gli sta vicino e anche a chi bussa fuori orario, a costo di interrompere qualcosa che gli piace o il riposo che si merita”. E qui, Francesco stacca gli occhi dai fogli dell’omelia per ripetere una considerazione che per lui è come una spina nel cuore:

“Il servitore trascura gli orari. A me fa male al cuore quando vedo orario – nelle parrocchie – da tal ora a tal ora. Poi? Non c’è porta aperta, non c’è prete, non c’è diacono, non c’è laico che riceva la gente … Questo fa male. Trascurare gli orari: avere questo coraggio, di trascurare gli orari”.

Lo stile della mitezza
Il Vangelo è pieno di storie di padroni e servitori. Nel brano liturgico del giorno spicca la vicenda del centurione che implora da Gesù la guarigione di un servo a lui caro. A colpire, nota Francesco, è l’estrema delicatezza con cui un ufficiale dell’esercito romano si premura di non disturbare il Maestro, affermando che com’è sufficiente per lui dare un ordine sapendo che verrà eseguito, anche per Gesù sarà lo stesso:

“Davanti a queste parole Gesù rimane ammirato. Lo colpisce la grande umiltà del centurione, la sua mitezza. E la mitezza è una delle virtù dei diaconi… Quando il diacono è mite, è servitore e non gioca a scimmiottare i preti, no, no… è mite. Egli, di fronte al problema che lo affliggeva, avrebbe potuto agitarsi e pretendere di essere esaudito, facendo valere la sua autorità; avrebbe potuto convincere con insistenza, persino costringere Gesù a recarsi a casa sua. Invece si fa piccolo, discreto, mite, non alza la voce e non vuole disturbare. Si comporta, forse senza saperlo, secondo lo stile di Dio, che è ‘mite e umile di cuore’”.

Mai sgridare
Questi, conclude il Papa, “sono anche i tratti miti e umili del servizio cristiano, che è imitare Dio servendo gli altri: accogliendoli con amore paziente, comprendendoli senza stancarci, facendoli sentire accolti, a casa, nella comunità ecclesiale, dove non è grande chi comanda, ma chi serve. E – soggiunge – mai sgridare: mai!”:

“Ciascuno di noi è molto caro a Dio, amato e scelto da lui, ed è chiamato a servire, ma ha anzitutto bisogno di essere guarito interiormente. Per essere abili al servizio, ci occorre la salute del cuore: un cuore risanato da Dio, che si senta perdonato e non sia né chiuso né duro (…) Cari diaconi, potete domandare ogni giorno questa grazia nella preghiera, in una preghiera dove presentare le fatiche, gli imprevisti, le stanchezze e le speranze: una preghiera vera, che porti la vita al Signore e il Signore nella vita”.

Grande gioia in Piazza San Pietro per la Messa nel giorno del Giubileo dei diaconi. Tre le parole del Papa che sono rimaste nel cuore dei numerosi diaconi presenti: servizio, mitezza e disponibilità. Marina Tomarro ha raccolto alcune testimonianze:

  R. – La nostra vita va declinata tutta su questi tre cardini; ci rimane spesso poco tempo ma dedichiamo tutto quel tempo al servizio, senza pensare se si fa tardi la sera, se si rinuncia magari ad un po’ di tempo per stare con gli amici … Il Signore ti chiede e ci chiede di essere portatori positivi di pace e di amore, e senza orologio …

R. – Questo deve caratterizzare la nostra vita quotidiana: in famiglia, in parrocchia, sul posto di lavoro, dappertutto!

D. – Lei è sposato?

R. – Sì: sposato, con figli.

D. – In che modo riesce a conciliare anche la vita familiare con il servizio di diaconato?

R. – Riesco a conciliarla nella misura in cui la mia famiglia mi è vicina: ed è molto vicina! Senza la mia famiglia non avrei mai potuto fare nulla di quello che sto facendo.

R. – Essere presenti, incontrare, accompagnare, amare: tutto in queste tre parole di carità.

R. – L’esempio me lo dà Papa Francesco, su come devo svolgere il mio servizio nella Chiesa. Quindi, quello che ha detto oggi è scritto nel mio cuore: non devo fare altro che perseverare in tutto questo.

D. – Lei è sposato?

R. – Sì.

D. – In che modo concilia anche la vita familiare con il servizio di diaconato?

R. – Io sono un architetto e da dieci anni sono diacono permanente in un contesto particolare che è un ospedale neuropsichiatrico di Limbiate, dove ci sono tanti fratelli che vivono una situazione particolare. Concilio tutto questo grazie all’aiuto e alla collaborazione anche di mia moglie, che mi aiuta molto nel ministero, oltre che nel lavoro: ci aiutiamo reciprocamente.

D. – Da dove venite?

R. – Dal Paraguay.

D. – Cosa vuol dire essere diacono?

R. – Servidor al pobre, al proximo, al enfermo, a todos ellos.

Servitore del povero, del prossimo, del malato, di tutti loro …

R. – Io, dopo 29 anni di diaconato, penso proprio di aver riassunto la vita del diacono: la disponibilità, il senza-orario, l’amore, l’umiltà.

D. – Cosa vuol dire essere moglie di un diacono?

R. – Eh … sono 29 anni … lui fa il diacono, e tutta la famiglia appresso a lui. E’ aiutato molto dalla famiglia.

R. – Più che il diacono singolo, è la famiglia diaconale, perché l’impegno è della famiglia.

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Da:  ufficipastorali [ufficipastorali@diocesidiasti.it]
Inviato:  lunedì 30/05/2016 11:38

Mi permetto inviarVi alcuni articoli riguardanti il diaconato scaricati da alcuni siti in occasione del Giubileo dei diaconi permanenti.
 
Fraternamente   diac. Pier Luigi

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Vaticano I saluti del Santo Padre prima dell’Angelus (a cura Redazione “Il Sismografo”)

“I bambini siriani invitano i bambini di tutto il mondo ad unirsi alla loro preghiera per la pace”. Al termine di questa celebrazione desidero rivolgere uno speciale saluto a voi, cari Diaconi, venuti dall’Italia e da diversi Paesi. Grazie della vostra presenza oggi, ma soprattutto della vostra presenza nella Chiesa!

Saluto tutti i pellegrini, in particolare l’Associazione europea degli Schützen storici; i partecipanti al “Cammino del Perdono” promosso dal Movimento Celestiniano; e l’Associazione Nazionale per la Tutela delle Energie Rinnovabili, impegnata in un’opera di educazione alla cura del creato.

Ricordo inoltre l’odierna Giornata Nazionale del Sollievo, finalizzata ad aiutare le persone a vivere bene la fase finale dell’esistenza terrena; come pure il tradizionale pellegrinaggio che si compie oggi in Polonia al Santuario mariano di Piekary: la Madre della Misericordia sostenga le famiglie e i giovani in cammino verso la Giornata Mondiale di Cracovia.

Mercoledì prossimo, 1° giugno, in occasione della Giornata Internazionale del Bambino, le comunità cristiane della Siria, sia cattoliche che ortodosse, vivranno insieme una speciale preghiera per la pace, che avrà come protagonisti proprio i bambini. I bambini siriani invitano i bambini di tutto il mondo ad unirsi alla loro preghiera per la pace.

Invochiamo per queste intenzioni l’intercessione della Vergine Maria, mentre affidiamo a lei la vita e il ministero di tutti i Diaconi del mondo.

Angelus Domini

 

Vaticano Santa Messa in occasione del Giubileo dei Diaconi. Omelia del Santo Padre: “Dio che è amore, per amore si spinge persino a servirci: con noi è paziente, benevolo, sempre pronto e ben disposto, soffre per i nostri sbagli e cerca la via per aiutarci e renderci migliori. Questi sono anche i tratti miti e umili del servizio cristiano

Alle ore 10.30 di oggi, IX Domenica del Tempo Ordinario, il Santo Padre Francesco celebra la Santa Messa sul Sagrato della Basilica Vaticana, in occasione del Giubileo dei Diaconi. Nel corso della celebrazione, dopo la proclamazione del Vangelo, il Papa tiene la seguente omelia:

Omelia del Santo Padre «Servitore di Cristo» (Gal 1,10). Abbiamo ascoltato questa espressione, con la quale l’Apostolo Paolo si definisce, scrivendo ai Galati. All’inizio della lettera si era presentato come «apostolo», per volontà del Signore Gesù (cfr Gal 1,1). I due termini, apostolo e servitore, stanno insieme, non possono mai essere separati; sono come due facce di una stessa medaglia: chi annuncia Gesù è chiamato a servire e chi serve annuncia Gesù. Il Signore ce l’ha mostrato per primo: Egli, la Parola del Padre, Egli, che ci ha portato il lieto annuncio (Is 61,1), Egli, che è in sé stesso il lieto annuncio (cfr Lc 4,18), si è fatto nostro servo (Fil 2,7), «non è venuto per farsi servire, ma per servire» (Mc 10,45). «Si è fatto diacono di tutti», scriveva un Padre della Chiesa (Policarpo, Ad Phil. V,2). Come ha fatto Lui, così sono chiamati a fare i suoi annunciatori. Il discepolo di Gesù non può andare su una strada diversa da quella del Maestro, ma se vuole annunciare deve imitarlo, come ha fatto Paolo: ambire a diventare servitore. In altre parole, se evangelizzare è la missione consegnata a ogni cristiano nel Battesimo, servire è lo stile con cui vivere la missione, l’unico modo di essere discepolo di Gesù. È suo testimone chi fa come Lui: chi serve i fratelli e le sorelle, senza stancarsi di Cristo umile, senza stancarsi della vita cristiana che è vita di servizio. Da dove cominciare per diventare «servi buoni e fedeli» (cfr Mt 25,21)? Come primo passo, siamo invitati a vivere la disponibilità. Il servitore ogni giorno impara a distaccarsi dal disporre tutto per sé e dal disporre di sé come vuole. Si allena ogni mattina a donare la vita, a pensare che ogni giorno non sarà suo, ma sarà da vivere come una consegna di sé. Chi serve, infatti, non è un custode geloso del proprio tempo, anzi rinuncia ad essere il padrone della propria giornata. Sa che il tempo che vive non gli appartiene, ma è un dono che riceve da Dio per offrirlo a sua volta: solo così porterà veramente frutto. Chi serve non è schiavo dell’agenda che stabilisce, ma, docile di cuore, è disponibile al non programmato: pronto per il fratello e aperto all’imprevisto, che non manca mai e spesso è la sorpresa quotidiana di Dio. Il servitore aperto alle sorprese quotidiane di Dio. Il servitore sa aprire le porte del suo tempo e dei suoi spazi a chi gli sta vicino e anche a chi bussa fuori orario, a costo di interrompere qualcosa che gli piace o il riposo che si merita. (…) Così, cari diaconi, vivendo nella disponibilità, il vostro servizio sarà privo di ogni tornaconto ed evangelicamente fecondo. Anche il Vangelo odierno ci parla di servizio, mostrandoci due servitori, da cui possiamo trarre preziosi insegnamenti: il servo del centurione, che viene guarito da Gesù, e il centurione stesso, al servizio dell’imperatore. Le parole che questi manda a riferire a Gesù, perché non venga fino a casa sua, sono sorprendenti e sono spesso il contrario delle nostre preghiere: «Signore, non disturbarti! Io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto» (Lc 7,6); «non mi sono ritenuto degno di venire da te» (v. 7); «anch’io infatti sono nella condizione di subalterno» (v. 8). Davanti a queste parole Gesù rimane ammirato. Lo colpisce la grande umiltà del centurione, la sua mitezza. (…) Egli, di fronte al problema che lo affliggeva, avrebbe potuto agitarsi e pretendere di essere esaudito, facendo valere la sua autorità; avrebbe potuto convincere con insistenza, persino costringere Gesù a recarsi a casa sua. Invece si fa piccolo, discreto, mite, non alza la voce e non vuole disturbare. Si comporta, forse senza saperlo, secondo lo stile di Dio, che è «mite e umile di cuore» (Mt 11,29). Dio infatti, che è amore, per amore si spinge persino a servirci: con noi è paziente, benevolo, sempre pronto e ben disposto, soffre per i nostri sbagli e cerca la via per aiutarci e renderci migliori. Questi sono anche i tratti miti e umili del servizio cristiano, che è imitare Dio servendo gli altri: accogliendoli con amore paziente, comprendendoli senza stancarci, facendoli sentire accolti, a casa, nella comunità ecclesiale, dove non è grande chi comanda, ma chi serve (cfr Lc 22,26). Mai sgridare. Così, cari diaconi, nella mitezza, maturerà la vostra vocazione di ministri della carità. Dopo l’Apostolo Paolo e il centurione, nelle letture odierne c’è un terzo servo, quello che viene guarito da Gesù. Nel racconto si dice che al suo padrone era molto caro e che era malato, ma non si sa quale fosse la sua grave malattia (v. 2). In qualche modo, possiamo anche noi riconoscerci in quel servo. Ciascuno di noi è molto caro a Dio, amato e scelto da lui, ed è chiamato a servire, ma ha anzitutto bisogno di essere guarito interiormente. Per essere abili al servizio, ci occorre la salute del cuore: un cuore risanato da Dio, che si senta perdonato e non sia né chiuso né duro. Ci farà bene pregare con fiducia ogni giorno per questo, chiedere di essere guariti da Gesù, di assomigliare a Lui, che “non ci chiama più servi, ma amici” (cfr Gv 15,15).  Cari diaconi, potete domandare ogni giorno questa grazia nella preghiera, in una preghiera dove presentare le fatiche, gli imprevisti, le stanchezze e le speranze: una preghiera vera, che porti la vita al Signore e il Signore nella vita. E quando servite alla mensa eucaristica, lì troverete la presenza di Gesù, che si dona a voi, perché voi vi doniate agli altri. Così, disponibili nella vita, miti di cuore e in costante dialogo con Gesù, non avrete paura di essere servitori di Cristo, di incontrare e accarezzare la carne del Signore nei poveri di oggi.

I diaconi di Roma a servizio dei poveri

Una ventina di diaconi permanenti della diocesi del Papa hanno iniziato a collaborare con il vescovo Elemosiniere: accolgono e aiutano i senzatetto, preparano e distribuiscono i pasti nelle stazioni della capitale. È un ritorno alla tradizione della prima comunità cristiana

andrea tornielli

Città del Vaticano

«Non è conveniente che noi lasciamo la Parola di Dio per servire alle mense. Pertanto, fratelli, cercate di trovare fra di voi sette uomini, dei quali si abbia buona testimonianza, pieni di Spirito e di sapienza, ai quali daremo questo incarico». Con queste parole riportate negli Atti degli Apostoli, ai primordi della comunità cristiana, i dodici istituirono la figura dei diaconi. E nella diocesi del Papa, il quale domenica 29 maggio celebrerà il Giubileo dei diaconi, questo ruolo viene oggi recuperato pienamente, coinvolgendo alcuni diaconi permanenti che si impegnano a servire i poveri, accogliendoli, preparando per loro i pasti e distribuendoli la sera nelle stazioni ferroviarie.  

Da quando l’Elemosiniere, il vescovo Konrad Krajewski, per volere di Papa Francesco, ha inaugurato molte iniziative in favore dei senzatetto nella città di Roma e nei dintorni di San Pietro – le docce sotto il colonnato, i servizi medici e la barberia – il numero di poveri che quotidianamente bussano alla porta dell’Elemosineria è aumentato. «Arrivano qui quaranta, cinquanta persone al giorno in cerca di aiuto, per presentare al Papa i loro bisogni e le loro difficoltà. Non mi è possibile incontrarli tutti. E così mi vengono in aiuto alcuni diaconi permanenti della diocesi di Roma». Il diaconato, com’è noto, è il primo grado dell’ordine sacro, finalizzato poi al sacerdozio. Ma dal Concilio Vaticano II in poi la Chiesa cattolica ha cominciato a ordinare dei diaconi permanenti, solitamente uomini sposati, che non diventeranno preti. Al diacono è delegata la lettura del Vangelo durante la messa e può celebrare alcuni sacramenti, come il battesimo. Ma alle origini, l’istituzione del diaconato era proprio finalizzata al servizio e alla carità.  

Così ogni giorno monsignor Krajewski mette a disposizione un piccolo salottino della sua abitazione, di fronte all’Elemosineria Apostolica, per ricevere i poveri. I diaconi romani che si alternano li accolgono, dialogano con loro per tutto il tempo necessario, li indirizzano a seconda dei loro bisogni e delle loro difficoltà: c’è chi ha necessità di essere curato, chi ha bisogno degli occhiali, chi di vestiti, chi di un aiuto per tornare in patria. Molti dei diaconi sono professionisti che svolgono il loro lavoro in vari settori: sono in grado di aiutare con competenza e anche di capire se si trovano di fronte a una persona realmente bisognosa oppure a qualcuno che finge.  

Un’altra squadra di diaconi permanenti lavora nella preparazione e nella distribuzione dei pasti ai poveri e ai senzatetto di Roma. È stata ripristinata una cucina nella chiesa rettoria di Santa Maria Immacolata all’Esquilino, dove durante alcuni pomeriggi della settimana si lavora per preparare la minestra o il risotto che sarà distribuito alla stazione Ostiense, Tiburtina e Termini. «Abbiamo i contenitori termici e prepariamo 250-300 pasti per volta – spiega Krajewski – mettendoci molta cura, come se preparassimo da mangiare per un’ospite importante, anzi come se preparassimo una cena per Gesù», confida a Vatican Insider. I diaconi permanenti oltre che a preparare, distribuiscono, insieme alle guardie svizzere e agli altri volontari. Tutto è pensato per comunicare, a chi riceve, una grande cura e una grande attenzione. Nel furgone usato per distribuire i pasti caldi c’è anche una vera macchinetta del caffè, per offrirlo ai senzatetto a fine cena. 

«C’è una grande dedizione – osserva l’Elemosiniere – sembra di essere ai tempi della prima comunità cristiana, subito dopo la risurrezione di Gesù. Oltre al cibo i diaconi e i volontari regalano un sorriso. È anche questa una liturgia, ciò che il Signore ci offre nella messa, noi dobbiamo moltiplicarlo, come tabernacoli viventi. A ognuno di coloro che distribuiscono i pasti, consiglio sempre di ripetere in cuor loro ad ogni piatto offerto questa litania: “Gesù, per te!”». 

Andrea Ciamprone, romano, sposato, classe 1971, è uno dei diaconi permanenti che collabora a queste iniziative. «L’impressione che ho rispetto a ciò che sto vivendo è questa: il diaconato torna ad essere ciò che è stato anticamente – spiega a Vatican Insider – perché i diaconi andavano là dove non poteva arrivare il vescovo ed erano l’immagine di Cristo servo. Ma c’è di più. Aiutando i poveri, che nel nostro caso sono soprattutto i senzatetto sto scoprendo infatti come avere un cuore “accordato” con Gesù».  

Chi ha paura dei diaconi? “Caso serio” nell’esercizio della autorità e “sintomo” di paralisi nel magistero ecclesiale

di Andrea Grillo

Pubblicato il 28 maggio 2016 nel blog: Come se non

Come ho già tentato di chiarire in diversi post di questo blog, dedicati alla comprensione della “mens” del pontificato di papa Francesco, mi pare che le recenti “aperture papali” sulla esigenza di un approfondimento sul tema del “diaconato femminile”, mettano in luce una “differenza di approccio al magistero” che potrebbe sfuggire alla comune considerazione e sulla quale vorrei richiamare la attenzione. In particolare vorrei sussumere questo “caso” in una casistica più ampia, per la quale il magistero degli ultimi 25 anni, progressivamente, ha assunto un atteggiamento sempre più difensivo, arroccato e diffidente verso ogni possibile novità nell’esercizio della autorità ecclesiale. Così, attraverso un duplice comportamento – che potrebbe apparire quasi contraddittorio – ossia mediante una “inflazione” e insieme una “autonegazione” del magistero, l’esercizio della autorità ha teso a confermare semplicemente se stesso, con stile apologetico e comprensione ottocentesca, progressivamente riducendo l’impatto delle novità del Concilio Vaticano II.

Questo è accaduto sui temi della morale sessuale, della rilevanza della coscienza, del ministro della unzione dei malati, del sacerdozione femminile e…del diaconato.

Come immunizzarsi dal diaconato

Analizziamo rapidamente gli sviluppi degli ulti 20 anni:

  1. a) Nel 1998 papa Giovanni Paolo II fece propria una decisione assunta dalla Congregazione per la Dottrina della Fede – il cui Prefetto era J. Ratzinger – mediante la quale corresse il n. 1591 del CCC, rileggendolo restrittivamente, e soprattutto creando una “categoria ex novo” che permetteva una drastica separazione, all’interno dell’ordine sacro, tra presbiterato e episcopato, da una parte, e diaconato, dall’altra. Il prezzo pagato per questa “operazione difensiva” era la incrinatura dell’unità del ministero ordinato, per difendere episcopato e presbiterato dalla novità diaconale.
  2. b) Nel 2009, recependo una indicazione di Giovanni Paolo II, papa Benedetto, continuando la medesima traiettoria che aveva suggerito come Prefetto 11 anni prima, modificò anche il CjC, ai canoni 1008-1009, integrando il testo in analogia con il catechismo e riducendo drasticamente la comprensione del “diaconato” nella Chiesa latina, escludendone la rappresentanza nelle azioni in nome di Cristo capo, e offrendo una lettura riduttiva delle competenza in rapporto alla liturgia, alla parola e alla carità.

La figura del diacono, che emerge da questa rilettura, è profondamente ridimensionata e separata diremmo per principio dall’esercizio effettivo della autorità ecclesiale. Ma questa operazione, di fatto, mira ad una regresso alla condizione di “gestione della autorità” tipica della Chiesa pre-conciliare. Nella quale l’esercizio della autorità ecclesiale non veniva alterato da “nuove competenze” in capo a soggetti che, pur appartenendo al “clero”, possono oggi essere stabilmente uxorati e, domani, esse stesse “uxores”!

Un ripensamento di fondo

Ora, il dibattito apertosi nelle scorse settimane, intorno alla possibilità di studiare una ammissione delle donne al grado del diaconato, dovrebbe suscitare una riflessione almeno su tre livelli della questione, determinando una reazione a questa “piega nostalgica” assunta dal magistero ecclesiale negli ultimi 20 anni:

  1. a) la comprensione sistematica del ministero diaconale

La soluzione catechistica e canonica predisposta negli ultimi 20 anni potrebbe vantare la pretesa indiscutibile tipica di una “teologia d’autorità”. Se il catechismo e il codice dicono una cosa, chi potrà dire qualcosa di diverso? Ma catechismo e codice non sono al vertice della autorità. La ragione e la fede hanno ancora qualcosa da dire a tale proposito. Ad esempio, possono osservare che un “ministero della parola” – riconosciuto al diacono – difficilmente può essere tenuto al riparo di una “azione in persona Christi (capitis)”. Lo stesso vale anche per la liturgia e per la carità. Chi presiede al culto e chi anima la carità esercita anche un ruolo autorevole e un magistero…proprio nell’essere radicalmente servo. Essere “Cristo capo” e “Cristo servo” non possono non suonare, anche e necessariamente, come sinonimi. Aver tentato non di distinguere, ma di separare definitivamente la conformazione a Cristo capo da quella a Cristo servo è una “svista dogmatica” molto pesante, e alla quale dovremo rimediare. Catechismo e codice sono qui sprovvisti di una base sistematica all’altezza della tradizione. La differenza classica tra “sacerdotium” e “ministerium” sopporta molte traduzioni dottrinali, disciplinari e canoniche diverse, di cui quella oggi vigente è sicuramente tra le meno felici.

  1. b) ordine e matrimonio in simbiosi

Un secondo punto importante, che deriva dalle nuove acquisizioni conciliari, consiste nell’aver “mescolato le carte” nel modo di pensare il rapporto tra ordine e matrimonio. Avevamo una rappresentazione dell’autorità riferita ai celibi e un immaginario della obbedienza riferita alle famiglie. Oggi riconosciamo apertamente una “autorità familiare”, ma facciamo ancora fatica a pensare la “autorità ecclesiale” nel contesto di comunione di una vita familiare. Le famiglie dei diaconi uxorati sono un caso classico di “nuova realtà”, complessa e ricca. Ovviamente, purché si possa ancora pensare che un “diacono uxorato” abbia ancora a che fare con l’esercizio della autorità. La ricostruzione clericale che dal 1998 ha modificato prima il CCC e poi il CjC va esattamente nella direzione opposta. Sembra proprio voler escludere che questa “novità” possano essere interpretate come “autorevoli”.

  1. c) genus diaconale et genus foeminile. Ciò che abbiamo detto viene ulteriormente arricchito dalla ipotesi – sottoposta come eventualità da studiare – di un accesso al diaconato riconosciuto anche alle battezzate. Questo terzo livello della questione, che simbolicamente appare assai rilevante, suppone tuttavia un adeguato lavoro sui primi due livelli, che accompagni e prepari il terzo. Chi mai sarebbe veramente interessato alla promozione della donna al riconoscimento ufficiale di “sacrestana di serie B”? Una discussione seria sul “diaconato femminile” dovrebbe anzitutto rimuovere gli ostacoli ad una comprensione sistematica e ad una lettura “anche non celibataria” del diaconato tout-court.

Deprecabile confusione o meravigliosa complicatezza?

E’ utile ricordare che il MP del 2009, che ha modificato in senso restrittivo la normativa del CJC è motivato dal “bisogno di evitare la confusione”. E’ significativo che la “chiarificazione” sia stata concepita e “assicurata” da una rigida sterzata verso il passato. La confusione sembra poter essere evitata solo “tornando indietro”. Papa Francesco, sembra muoversi secondo un altro avviso. Non si spaventa né della discussione, né della “complicatezza”. E’ la realtà che si presenta con una “complicatezza” che, nelle sue stesse parole, appare non preoccupante o “vitanda”, ma “meravigliosa”!

Un esercizio della autorità nella Chiesa, che non sia contaminato né dalla esperienza matrimoniale (del diaconato permanente uxorato già possibile) né dalla differenza sessuale (di diaconi donne possibili in futuro) non merita proprio di essere concepito solo a condizione di essere esautorato. Il titolo del Motu Proprio  che realizzava nel 2009 questo obiettivo arretramento si intitolava Omnium in mentem. Già allora, ma ancora più oggi, possiamo riconoscere nel titolo del documento quella tipica sovrabbondanza di retorica ecclesiastica, che attribuisce temerariamente a tutti la “intenzione” e il “timore” di pochissimi. E che confonde la autoreferenzialità ecclesiale con la fedeltà alla tradizione. In una Chiesa in cui l’esercizio della “vera autorità” sia mantenuto soltanto nel piccolo e corto circuito della esperienza di “maschi celibi”, nessuna “amoris laetitia” può essere presa veramente sul serio. La riforma del CCC e del CJC degli ultimi 20 anni è la vera causa della indifferenza con cui diversi ambienti clericali snobbano Amoris Laetitia. Questa indifferenza deve essere superata, perché è il segno di una grave paura ecclesiale e di una paralisi nell’esercizio della autorità. Riconoscere la autorità delle famiglie e delle donne è l’unica via per restare fedeli alla tradizione, rinunciando ad ogni ipotesi di trasformare la Chiesa in un museo a numero chiuso.

Un discernimento di nuovo possibile

Nel documento della Commissione Teologica Internazionale del 2002 si chiudeva la lunga e profonda trattazione dedicata al “diaconato” con una valutazione della ordinazione delle donne al diaconato che così suonava: “spetterà al ministero di discernimento che il Signore ha stabilito nella sua Chiesa pronunciarsi con autorità sulla questione”. I provvedimenti che hanno preceduto e seguito questa affermazione hanno teso, piuttosto, ad “escludere ogni discernimento”, superandolo mediante un ridimensionamento “originario” della comprensione del diaconato, quasi espungendolo dallo stesso “ordine sacro”.

Credo che non sia casuale che papa Francesco, che ha appena reintrodotto nel sacramento del matrimonio una “logica di discernimento” per affrontare le questioni della vita familiare, possa ricorrere domani alla stessa logica per arricchire la esperienza ministeriale della Chiesa cattolica. Il discernimento, però, non sarà semplicemente una “strategia di inclusione”, ma anche una mediazione preziosa e paziente per valorizzare la “differenza” di un ministero ordinato non solo “attribuito ad una donna”, ma che “può essere caratterizzato da uomini e donne sposati” e che arricchisce la esperienza comune del ministero episcopale e presbiterale.

Abbiamo bisogno di discernimento, in altri termini, per pensare sistematicamente il “terzo grado” del ministero, per renderlo compatibile con il matrimonio e per riferirlo ad un soggetto femminile. Dopo un magistero che ha preferito superare ogni possibile discernimento esercitando l’autorità anche contro ogni evidenza – barricandosi catechisticamente e canonisticamente nell’unica evidenza sopportabile, ossia quella autoreferenziale – una stagione di esercizio dell’autorità nel discernimento può permettere alla Chiesa di superare quella rigidità che spesso nasce dalla paura e dal pregiudizio.

Famiglie e donne saranno la cura di questa malattia del diaconato che non è mortale, anche se è maschile.